“Alla complessa articolazione del clero regolare si aggiunsero, nel basso Medioevo, i monasteri degli ordini mendicanti e le confraternite, che arricchirono ulteriormente il quadro dell’organizzazione della vita religiosa.

Contrariamente a quanto successe nella maggior parte delle città italiane tra XIII e XIV secolo, l’introduzione di questi nuovi elementi, e particolarmente degli ordini domenicani e francescani, non produsse una riscrittura degli spazi urbani. I Mendicanti si insediarono infatti in chiese preesistenti, di cui assunsero le proprietà immobiliari. E rimasero anche esclusi dalla gestione del potere economico, che si fissò saldamente nelle mani delle quattro principali abbazie: San Vitale, Sant’Apollinare in Classe, San Giovanni Evangelista e Santa Maria in Porto. Il loro potere si andò delineando nell’età della debole autonomia comunale e si rafforzò con l’infiacchimento del potere signorile locale. Con un ritardo di qualche secolo, insomma, le abbazie ravennati andarono ad uguagliare l’importanza dei grandi monasteri dell’Emilia occidentale. […] Il processo di accumulazione di ricchezze e di terre fu proporzionale allo sviluppo delle strutture edilizie conventuali: i monasteri avevano grandi dimensioni, coprivano interi isolati e, con mirabili soluzioni architettoniche, raccoglievano, oltre alla residenza dei monaci, molteplici attività economiche e commerciali. […] La totale esenzione dalle tasse e la notevole autonomia di cui godevano nei confronti dell’autorità episcopale li ponevano su un piano di netta supremazia rispetto al clero secolare.2

 

 

[Fonte: C. Giovannini, G. Ricci, Le città nella storia d’Italia. Ravenna, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 93-94]